César Vallejo: la pietas e la redenzione umana

César Vallejo: la pietas e la redenzione umana
Relazione presentata all’Istituto Cervantes di Milano il 19 aprile 2007, in occasione dell’omaggio tributato al grande poeta peruviano, a cura di Mariella Moresco.

L’invito a presentare un breve intervento nel corso dell’omaggio che l’Istituto Cervantes e l’Associazione Nuovi Orizzonti Latini offrono al grande poeta peruviano César Vallejo mi ha fornito la grata occasione di riprendere la sua opera, rileggendola con occhi e cuore più maturi, più vicini, per esperienza di vita, al suo sentire.

Non farò un neppure fugace accenno alla sua biografia né alla sua collocazione nelle correnti poetiche del suo tempo. Altri, ben più titolati interventi sicuramente colmeranno questa mia voluta lacuna, evidenziando come la sua opera, come ebbe ad indicare il prof. Bellini, “aprì la strada al rinnovamento di tutta la poesia peruviana” ma non solo, se è vero che insieme a Neruda (con il quale fu tra i più sentiti ed imitati poeti per almeno i cinquant’anni successivi alla propria morte) Vallejo si espresse in “una lingua poetica […], emancipatasi dalla matrice spagnola al punto […] d’imporre alla madrepatria la propria suggestione”, secondo il giudizio di Francesco Tentori Montalto.

In questo breve intervento mi piacerebbe solo cogliere, lungo l’arco della sua produzione poetica, quanto della sua dolente umanità riesce a commuovere, sintonizzandosi con le loro più profonde vibrazioni, il cuore e l’anima di noi contemporanei: e cioè la sua pietas, il commosso e partecipe chinarsi sulle sofferenze umane, il sapere “attraversare” l’aspetto sociale per cogliere, nel dramma dello sfruttamento e l’oppressione dei miseri, il dolore del singolo, paradigma dell’universale dolore umano.

César Vallejo, un poeta dalla “scabra e tagliente tragicità”, secondo le parole del poeta Mario Luzi , è uomo dalla forte tempra spirituale, che neppure la persecuzione e il carcere riuscirono a fiaccare, come accadde invece per il suo corpo; ebbe una vita non lunga, inquieta e dolorosa, conclusa con la morte in esilio, presentita nei suoi celebri versi: “Me moriré en París con aguacero, / un día del cual tengo ya el recuerdo”.

L’oppressione sociale, la discriminazione razziale che lo stesso Vallejo dovette soffrire in quanto meticcio, coincidono nella sua espressione poetica con l’ancora più dolorosa oppressione dello spirito dell’uomo, di una creatura che egli sente, come fu egli stesso, inerme di fronte ai colpi del destino, una creatura abbandonata dal suo creatore, che il poeta accusa di incapacità di cogliere la desolazione e la solitudine umana.

Prima raccolta poetica di Vallejo, Los Heraldos Negros è stato ben definito da Marcelo Ravoni “un insolito combattere con le parole e dominarle senza enfatizzarle… per esprimere complessi tremiti psichici ed esistenziali che, adoperando ancora gli strumenti modernisti, seppellivano già tutti gli assoluti facili del modernismo e delle precedenti visioni del mondo”. Delle tre sezioni, Nostalgias imperiales, Truenos e Canciones del hogar, quest’ultima è la più limpida, quella che può essere considerata il cuore di tutta la poesia vallejana. In essa quasi tutte le poesie sono elegie di rimpianto per la perduta felicità del nucleo familiare, dove circolano affetti, attenzioni, un nido caldo e sicuro per il bambino che Vallejo continuerà a portare nel suo cuore ma che, privato di quel mondo, dovrà soffrire la solitudine provando un sentimento di doloroso abbandono (la costante della orfandad, dell’essere orfano) che accompagnerà tutta la sua vita adulta. In questi versi vi sono i temi che si svilupperanno, con ben maggiore amarezza, nelle opere più mature: il disperato sentimento di solitudine affettiva e quello lacerante per il dolore del mondo, per il quale si chiede ragione a Dio.

Il suo successivo convincimento politico affonda le proprie radici più autentiche in un sentimento profondamente religioso di amore universale e solidario: “Me vien, hay días, una gana ubérrima, política, / de querer, de besar al cariño en sus dos rostros, / y me viene de lejos un querer / demonstrativo, otro querer amar, de grado o fuerza, / al que me odia.”  Un sentimento che si esprime, nel corso della sua vita, in una concezione non sempre lineare di Dio: pur approdando in punto di morte alla totale fiducia nella comprensione e misericordia divina, in altri momenti prevale il senso di un Dio impotente (o addirittura indifferente?) di fronte al destino dell’uomo, un destino senza senso (“nuestro haber nacido así sin causa”) ; un Dio che non può o non vuole liberare dal dolore ed al quale il poeta lancia il suo grido “fino a quando?”, ripetuto quasi ossessivamente in La cena miserable di fronte alla miseria, all’ingiustizia, al dolore di una vita subìta senza colpa: “Hasta cuándo estaremos esperando lo que / no se nos debe…[…] / Hasta cuándo / la cruz que nos alienta no detendrá sus remos! // Hasta cuándo la Duda nos brindara blasones / por haber padecido!… […] // Y cuándo nos veremos con los demás, / Hasta cuándo esta valle de lácrimas, a donde / yo nunca dije que me trajeran. // […] hasta cuándo la cena durará”. Di fronte a questa impotenza/indifferenza il poeta arriverà a ribellarsi, a mettere sotto accusa Dio: “Hay ganas de… no tener ganas, Señor; / a ti yo te señalo con el dedo deicida; / hay ganas de no haber tenido corazón”.

L’ultimo legame con la vita degli affetti familiari e con la sua patria è costituito dalla raccolta Trilce (1922), scritta in carcere e che Ravoni definisce “il più originale campionario di esperimenti poetici di avanguardia non epidermica in lingua spagnola e il primo capolavoro di una poesia assolutamente nuova nel continente ispano-americano” . L’esperienza del carcere lo renderà consapevole e partecipe del dolore e della debolezza umana fino a fargli provare rimorso per aver riso della premurosa delicatezza della madre per i più bisognosi e per le proprie prepotenze infantili verso i compagni più deboli e divenendo metafora della condizione di sofferenza e di alienazione dalla vita, vissuta come esilio doloroso al punto di aspirare a giungere alla sua fine: “Cuándo vendrá / el domingo bocón y mudo del sepulcro”.

Il confronto tra la durezza della vita a Parigi con la sua crudele indifferenza, l’egoismo sociale di fronte alla miseria dei molti e l’immagine, portata nel cuore, del suo hogar, il caldo nido domestico dove condividere il poco che si possiede tra gli affetti più cari, fa scaturire i ricordi dell’infanzia, di un tempo irrimediabilmente perduto, quasi un tempo “defunto”, non parte felice della propria vita ma quasi una vita “altra”, che non riconosce come parte del suo presente, trasformandosi il ricordo in dolore per la propria solitudine, per l’assenza di amore familiare, per la nostalgia struggente della casa paterna e della famiglia: “Esta noche desciendo del caballo, / ante la puerta de la casa, donde / me despedí con el cantar del gallo. / Está cerrada y nadie responde”.  Dolore per l’assenza soprattutto della madre, che amorevolmente definisce “tierna dulcera de amor” ed alla quale dedica bellissimi versi che preannunciano la sua trasfigurazione nella Madre España delle sue poesie più tarde: “El yantar de estas mesas así, en que se prueba / amor ajeno en vez del propio amor, / torna tierra el bocado que no brinda la / MADRE”

In Trilce vi è uno sguardo ancora rivolto a sé, al proprio dolore, manifestazione di una sofferenza ancora individuale che nella successiva maturità verrà estesa a tutta l’umanità sofferente, identificando il proprio dolore con quello universale. A partire da allora il verso di Vallejo sarà dedicato, con tutto il pathos della sua profonda partecipazione umana oltre che ideologica, alla dolorosa espressione della misera vita dei più poveri, dei più oppressi, con un trapasso al sociale che è “un ampliarsi e sollevarsi a universale del dramma del singolo” , come scrive Francesco Tentori Montalto.

Il titolo stesso della raccolta successiva, Poemas humanos (pubblicata postuma nel 1939), indica nella umanità il tratto distintivo della sua poesia: una essenza umana fatta di dolore, desolazione, sentimento del vuoto di senso della vita. In queste poesie si rivela una psicologia più adulta: non più creditore nei confronti della vita, Vallejo si pone come debitore. Dalla commiserazione per se stesso giunge alla pietà per tutti coloro che attraversano la vita da “orfani”, che hanno perso la “madre”, cioè il calore di un affetto che dà protezione, che sostiene e nutre. L’amore per i poveri, per i reietti ormai è divenuto amore per tutti gli uomini, perché il dolore è esperienza universale, che tutti accomuna ed affratella.

Nella triste rassegnazione di questo suo “momento poetico”, in cui la vita umana è spesso ridotta a una ripetizione monotona di quotidianità misera e miserabile, si genera però un guizzo di ribellione: “hay, hermanos, muchísimo que hacer”. Occorre tendere all’ideale, dove ogni disordine si aggiusterà in un ordine morale e sociale e dove la vita di ogni uomo troverà senso, pace e felicità perché “Ya va a venir el día, ponte el sueño /[…]/ Ya va a venir el día, ponte el sol”.

La fede politica è volta alla salvezza umana, alla liberazione degli uomini dai colpi ciechi del destino, in uno svolgersi escatologico della Storia, che si compirà nell’eternità concepita come tempo “ultimo” da avverarsi su questa terra, in un “ritorno”, dopo l’esilio della orfandad, alla madre ed alla casa: la Madre Spagna delle sue ultime poesie, metafora di una più ampia Umanità, e la società in cui gli uomini possono finalmente vivere come fratelli. Non c’è’ salvezza per l’uomo singolo, per la sua triste corporeità, di cui fa inevitabilmente parte una morte anch’essa, come la vita, priva di senso, che non può trovare né nel pensiero né nella religione: “a qué el pupitre asirio? a qué el cristiano púlpito?/[…]/ Es para eso, que morimos tanto? / Para sólo morir/ tenemos que morir a cada instante?” L’angoscia è connaturata alla condizione dell’uomo, ma in quanto singolo. Il suo superamento è possibile solo nel destino collettivo in cui ritroverà finalmente la dignità del vivere e financo la felicità.

Non c’è quindi contraddizione, ma solo un coerente superamento, tra il pessimismo delle liriche giovanili e l’afflato epico della sua ultima produzione poetica, España aparta de mí este cáliz (1937-1938), che costituisce il culmine della sua riflessione sul destino umano, la redenzione dell’uomo e la sua resurrezione. Una redenzione umana che in Vallejo trae la propria linfa , come evidenziato da Roberto Paoli , da una visione biblico-cristiana innestata nell’umanesimo marxista :
– “Amado sea aquel que tiene chinches, / el quel leva zapato roto bajo la lluvia, / el que vela el cadáver de un pan con dos cerillas, / […] / Amado sea / el que tiene hambre o sed, pero no tiene / hambre con qué saciar toda su sed, / ni sed con qué saciar todas sus hambres!” [Beatitudini]
– “Se amarán todos los hombres / […] / Entrelazándose hablarán los mudos, los tullidos andarán! Y Verán, ya de regreso, los ciegos / y palpitando escucharán los sordos! / Sabrán los ignorantes, ignorarán los sabios! / Serán dados los besos que no pudiste dar! / Sólo la muerte morirá!”
[Isaia]
Senza risposta rimangono i suoi interrogativi assillanti: Perché? Perché l’uomo soffre, perché muore, perché uccide? Angosce esistenziali ribadite in questa sezione in cui giunge a compimento la sublimazione delle figure della madre, dell’hogar, della propria patria in miti universali capaci di raccogliere tutti gli orfani, gli inermi, capaci di una consolazione prodigata non solo agli esseri umani ma all’intero creato.

España può essere considerata il culmine mistico-eroico della sua poesia, in cui la figura del lavoratore manuale si innalza al ruolo di redentore dell’umanità, del proletario/volontario che si immola, cosciente, per il bene comune, al quale rivolgere una religiosa richiesta di perdono: “Obrero, Salvador, redentor nuestro, / ¡perdónanos, hermano, nuestras deudas!” . Il vincolo inscindibile tra il sacrificio dei combattenti volontari e la piena realizzazione dell’uomo tramite la cultura è espresso nell’ultima strofa della stupenda Pequeño responso a un héroe de la república: “Todos sudamos, el ombligo a cuestas, / También sudaba de tristeza el muerto / y un libro, yo lo vi sentitamente, / un libro, atrás un libro, arriba un libro / retoñó del cadáver exabrupto”.

Il dolore individuale, e quindi sterile nella visione di Vallejo, di Heraldos Negros e Trilce si evolve, giunge a compimento, attraverso il suo divenire esperienza collettiva dei Poemas humanos, in España, dove si mostra nella sua ricchezza feconda. Attraverso questo dolore l’uomo diventa “eroe”: eroe vittorioso ma non per questo meno umano, come esemplificato nell’indimenticabile figura di Pedro Rojas, modesto anche nel nome. Uomo dalla vita comune di proletario poco istruito, di marito, padre, ferroviere, ma sempre Uomo. Con la sua vita modesta, gli oggetti quotidiani, i suoi errori di ortografia, “lo han matado obligándole a morir” , ma la sua grandezza di uomo “que nació muy niñin, mirando al cielo” e che “después muerto, se levantó” non può togliergliela nessuno, neppure la morte, perché “su cadáver estaba lleno de mundo”.

Un altro grande latinoamericano, Che Guevara, dirà molti anni più tardi, che rivoluzionario è colui che sente come fatta a sé l’ingiustizia fatta ad ogni altro uomo. Vallejo andò più in profondità: sentì, patì e condivise il dolore esistenziale dell’uomo, di ogni uomo indifeso, solo, piangente su cui si posavano i suoi occhi e da quella condivisione fraterna nacquero la sua coscienza sociale ed il suo impegno politico, imprescindibile nella vita dei suoi ultimi anni in quanto nato non da sola convinzione ideologica ma da un senso doloroso della vita propria e altrui, un forte senso di dovere dedicarsi al bene altrui e da una viscerale condivisione della condizione umana nel suo aspetto più tragico e dolente.

E’ questo aspetto che ce lo fa sentire così vicino, oltre il tempo che ci separa.
Come ogni grande, ogni “classico”, le sue parole risuonano nel nostro animo e lo fanno vibrare, lo scuotono, lo commuovono. Noi continuiamo a commuoverci con lui sul pianto dell’uomo, sulla sua sofferenza e solitudine, perché le sue parole sono capaci di farcele riconoscere come la nostra sofferenza, la nostra solitudine. Ma ci ricordano anche la nostra grandezza di uomini. “Salid, niños del mundo; id a buscarla!”

Maggio 2007