César Vallejo: Il Leopardi delle Ande

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“Il Leopardi delle Ande”, di Bruno Arpaia – 21/09/2008 – Il Sole 24 Ore Torna l’opera omnia del poeta peruviano César Vallejo, una delle voci più forti del ‘900 sudamericano. Imprigionato ed esiliato, fu avanguardista senza pose. Mischiò sensibilità indigena e barocco ispanico. Nella sua ricerca costante di un linguaggio che fosse credibile, evitava le parole inutili e il «solletico verbale». Cantò la solidarietà umana. Ci sono voluti il settantesimo anniversario della morte e la coraggiosa iniziativa di una piccola casa editrice come Gorée per fare in modo che il lettore italiano, dopo ben trentacinque anni di assenza, potesse ritrovare nelle librerie le opere del peruviano César Vallejo, senza alcun dubbio una delle più grandi voci poetiche del Novecento. Una voce perseguitata spesso dalla miseria e dalla sfortuna, tanto negli anni giovanili fra Trujillo e Lima, quanto in quelli dal 1923 alla morte, avvenuta nel 1938, trascorsi per lo più a Parigi. I due volumi dell’Opera poetica completa, con la traduzione e l’introduzione di Roberto Paoli (una delle figure più importanti dell’ispanoamericanismo italiano, scomparso nel 2000), attestano questa sofferenza da “umiliato e offeso”, ma anche l’attraversamento, da parte di Vallejo, di tutte le avanguardie a lui coeve, senza che si possa mai ascriverlo all’una o all’altra. La sua voce è, infatti, prepotentemente originale, angolosa, dotata di una «fisicità scheggiata, lancinante, ostile», come afferma lo stesso Paoli. Con lui, secondo la formula di Pablo Antonio Cuadra, viene stretta «la prima vera alleanza poetica della lingua spagnola con le labbra dell’indio». Ma tutto avviene senza forzature, senza orpelli programmatici, come notò all’epoca José Carlos Mariátegui: «Vallejo», scrisse il fondatore del partito comunista peruviano, «ha nella sua poesia il pessimismo dell’indio. In questo pessimismo si trova sempre un fondo di pietà umana. Questo pessimismo è privo di qualunque origine letteraria. Non traduce una romantica disperazione da adolescente turbato dalla voce di Leopardi o di Schopenhauer.Riassume l’esperienza filosofica, condensa l’atteggiamento spirituale di una razza, di un popolo». Così, nel suo universo autenticamente patetico e infelice, la novità di un “parlato” aperto alle irruzioni, si direbbe fisiche, della sofferenza che sconvolge la parola, alterando l’architettura della lingua. ln lui c’è una lotta a morte con il linguaggio, e perfino quando riesce a sottometterlo, Vallejo non può evitare che si sentano ancora nei suoi versi tracce di quella battaglia. Ne sono già prova i primi componimenti, riuniti ne Gli araldi neri, sebbene Paoli ne noti ancora la superficialità, l’irruzione solo a tratti dell’eccezionalità del suo temperamento poetico. La raccolta successiva, Trilce, scritta nel 1921-22 nel carcere in cui era stato ingiustamente rinchiuso. è invece già, secondo molti critici, «il più originale campionario di esperimenti poetici di avanguardia non epidermica in lingua spagnola» (Marcelo Ravoni). È con le opere del periodo parigino, però, che Vallejo raggiunge la piena maturità stilistica e contenutistica, che si confronta con il surrealismo, il cubismo, l’espressionismo, per ricavarne influenze che lo portano molto al di là dei suoi colleghi. Nei Poemi umani o in Spagna, allontana da me questo calice, per dirlo ancora con le parole di Roberto Paoli, Vallejo disegna un «grandioso, direi andino panorama di scabra maestà verbale», non esente, nel gioco degli opposti o nel retoricismo, da echi barocchi («Quevedo, fulmineo antenato dei dinamitardi», scriverà nell’Inno ai volontari della Repubblica), ma sempre attento a «evitare le parole inutili, il solletico verbale», a «cancellare a livello di percezione e di linguaggio ogni traccia di edonismo e di sensualità per aderire alla pura sensazione della carenza e del dolore» (ancora Paoli). La poesia di Vallejo è perciò sempre implacabile. Non consola, non conforta, ma offre una rara e necessaria verità che, come Leopardi o Machado, al fondo del dolore, al di là del velo delle nostre illusioni, scopre la solidarietà umana. Vallejo, ancora nelle parole di Mariátegui, «è un mistico della povertà che si toglie le scarpe affinché i suoi piedi conoscano nudi la durezza e la crudeltà del cammino».Eppure, dopo questo processo, questo guardare negli occhi il dolore costitutivo dell’umano, qualche speranza rimane. Ne è testimonianza Spagna, allontana da me questo calice, uno dei poemi più intensi e antiretorici che abbia prodotto la guerra civile spagnola, durante la quale Vallejo si schierò decisamente al fianco della Repubblica. E infatti c’è un abisso tra questo libro e quello di Neruda, nato dalla stessa esperienza: per Pablo Antonio Cuadra, «in España, aparta de mi este caliz Vallejo è l’uomo che patisce e muore. Neruda, in España en el corazón, è lo spettatore che compatisce e canta». Per questo è così importante che i lettori di oggi e di ieri possano finalmente scoprire o riscoprire quel mondo di sensazioni nude, quel coraggio di fronte alla sofferenza e al dolore, quell’espressività fisica del verso che César Vallejo seppe lasciarci in eredità dalla sua vita di avversità e di stenti.Vedi Tania Libertad in Concerto dedicato a César Vallejo:
http://www.youtube.com/watch?v=WbBQuGSlwoA