Guayasamin, il titano della pittura latinoamericana.
Mariella Moresco
Nel corso della rassegna Cine Muhler, svoltasi a Roma a cura dell’Ass. Nuovi Orizzonti Latini, un corto della regista Yanara Guayasamin mostra il suo celebre padre, il pittore ecuadoriano Oswaldo Guayasamin, mentre dipinge un autoritratto per la Galleria degli Uffizi di Firenze.
Chi è questo artista che Pablo Neruda, il grande poeta cileno e suo amico dai tempi della giovinezza, definì “il più grande pittore latinoamericano” ?
Mi piace definirlo come il “cantore appassionato dell’America Latina oppressa”, l’interprete che ha tratto la forza poetica della sua pittura dalla sua stessa origine indigena, di cui andava orgoglioso.
Figlio di madre meticcia e padre quechua, parlando dei propri occhi azzurri diceva che “sus ojos azules eran una infima gota de sangre intrusa en el vasto mar de su indigenidad” (i suoi occhi azzuri erano una infima goccia di sangue estranea nel grande mare della sua indigenità).
L’America indigena, l’America oppressa, contadina, umiliata Guayasamin la conoscerà fin da giovane, a partire dal suo soggiorno in Messico, dove imparerà l’arte dell’affresco lavorando come assistente al capolavoro del grande muralista José Clemente Orozco: la cupola della cappella dell’Hospicio Cabañas di Guadalajara, dove il maestro dipinse la storia del Messico, lo scontro di culture e la tragica realtà contemporanea. Scena centrale nella cupola, l’”Uomo di fuoco”: una figura umana avvolta dalle fiamme dalla discussa interpretazione ma dal forte impatto visivo e simbolico.
Ancora giovane Guayasamin visita molti paesi dell’America Latina e ovunque ritrova la stessa realtà di oppressione, miseria, ingiustizia sociale, razzismo, violenza e sofferenza, che alimenterà tutta la sua opera, segnata già da giovanissimo da un episodio doloroso avvenuto agli inizi degli anni ‘30: la morte di un amico fraterno durante la “guerra de los cuatro días”, una rivolta operaia, episodio che ha ispirato il suo lavoro “Los Niños Muertos” (I bambini morti), una cruda scena di cadaveri nudi, spogliati della vita ma, soprattutto, privati della pietas dei loro simili.
Da allora Guayasamin utilizzerà la sua arte per denunciare e combattere, secondo le sue parole, “crueldades e injusticias de una sociedad que discrimina a los pobres, los indigenas, los afroecuatorianos y los débiles” (crudeltà e ingiustizie di una società che discrimina i poveri, gli indigeni, gli afroecuadoriani ed i deboli.)
Il suo genio gli ha guadagnato importanti riconoscimenti. Le sue opere furono esposte in moltissimi paesi d’America e in prestigiose sedi europee, come il Museo del Palazzo del Lussemburgo a Parigi, l’Ermitage di San Pietroburgo, dove per la prima volta espose un artista vivente, a Mosca, Praga, Varsavia, Madrid, Barcellona, e in Italia a Roma e Firenze.
Molte altre impreziosiscono sedi di alto valore simbolico come il Parlamento Latinoamericano a San Paolo e a Parigi la sede dell’Unesco, che gli conferì il premio José Martí per “una intera vita di lavoro per la pace”. L’Italia lo ha riconosciuto degno di divenire membro onorario dell’Accademia delle Arti.
Impossibile in questa sede passare in rassegna tutta la sua enorme produzione, tra cui molti ritratti di intellettuali ed esponenti della cultura latinoamericani, molti dei quali divenuti suoi amici, come: Rigoberta Menchù, Mercedes Sosa, Fidel Castro e Gabriel García Márquez.
Per averne un’idea, ascoltiamo le parole dello stesso Guayasamin: “Mi obra en verdad son tres sinfonías que había diseñado en mi juventud y que estoy cumpliendo día a día”. (La mia opera in verità sono tre sinfonie che avevo progettato nella mia gioventù e che sto realizzando giorno dopo giorno).
Tre sinfonie, tre tappe:
– la prima, Huacayñan, che in lingua quechua significa “el camino del llanto” (il cammino del pianto), è il risultato di quel percorso, direi iniziatico, compiuto in gioventù attraverso l’America Latina, soprattutto l’America indigena, nera, meticcia. 103 opere caratterizzate dalla rappresentazione di grandi mani che gridano, implorano. Possiamo dire: mani che piangono. “Mani pure come ali di colombe”, è stato scritto. Guayasamin (“ave blanca volando” in quechua) è il testimone del pianto degli oppressi;
– la seconda è La edad de la ira (l‘età dell’ira), dove vengono espresse le grandi tragedie del secolo appena trascorso: la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale, il nazismo ed i campi di concentramento, le dittature e gli interventi militari in America Latina, gli infiniti dolori che ne sono derivati e l’ira, l’odio, la frustrazione e la rivolta;
– la terza, l’Edad de la Ternura (l’età della tenerezza) è conosciuta anche come “Mientras vivo siempre te recuerdo” (Ti ricorderò fin che viva). E’ un omaggio alla madre, la propria e quella universale, di ogni uomo. Una sinfonia, questa, imperniata sul rapporto madre-figlio, archetipo primordiale di ogni relazione umana basata sull’aspirazione universale a un mondo dove tutti possano lavorare e vivere in armonia, senza conflitti e violenze.
Un percorso che non può non far sorgere sensazioni, emozioni, sentimenti diversi. Che non può non portare a una profonda riflessione sull’uomo e sulle sue vicissitudini.
Ben diceva Pablo Neruda: “Pensiamo prima di entrare nella sua pittura, perché non ci sarà facile tornare indietro”.
Tutti i lavori di Guayasamin, siano sculture o pitture, provocano una reazione immediata. I colori forti, le immagini spesso inquietanti, i temi crudi non possono lasciare indifferenti.
Fin dai suoi inizi utilizza la sua arte come uno strumento di lotta contro la crudeltà, la violenza e l’ingiustizia.
Guayasamin diceva che: “ Mi pintura es para herir, para arañar y golpear el corazón de la gente”.
“La mia pittura vuole ferire, vuole graffiare, colpire i cuori della gente. Perchè vuole dimostrare che l’uomo nasce contro l’uomo… dipingere è un modo di pregare e di gridare nello stesso tempo. Sono cosciente che veniamo da una cultura millenaria, attorno alla quale si è formata una civilizzazione che ebbe momenti di grande splendore e che, nonostante tutto, non abbiamo perduto la fede nell’uomo, nella sua capacità di sollevarsi e costruire, perchè l’arte protegge la vita ed è un modo d’amare”.
Nel 1995 Guayasamin dà inizio a un altro capolavoro, che sarà purtroppo terminato anni dopo la sua scomparsa, “La Capilla del Hombre” (La cappella dell’Uomo), un grande edificio dedicato alla storia dell’uomo latinoamericano, dalle sue radici e culture native fino alla realtà contemporanea.
“Voglio esprimere tutta la tragedia che abbiamo vissuto attraverso le nostre vite e la nostra storia in America Latina”, disse l’artista cominciando il progetto. “Nella prima parte della Cappella dell’Uomo, riferendomi a tre grandi culture, gli Aztechi, i Maya e gli Incas, voglio esprimere una specie di canto d’amore per noi che siamo stati questo e da questo dobbiamo partire per essere un gruppo umano differente”.
Un episodio fa ben capire questo profondo legame che sentiva Guayasamin con tutto il passato latinoamericano. Si narra che un giorno gli domandarono da quanto tempo dipingeva. Dopo qualche secondo di riflessione, Guayasamín rispose “Llevo pintando tres mil o cinco mil años, más o menos” (Sto dipingendo da tre-cinquemila anni, più o meno).
La Capilla del Hombre è un monumento che esprime il canto, il dolore, l’ira, la violenza e la lotta, l’eroismo, il sacrificio e il trionfo. Anche il trionfo, perché la sua opera, pur così aderente alle tragedie umane, non è mai intrisa di pessimismo, rassegnazione o sconfitta ma, al contrario, fa sorgere la voce della ribellione e della speranza, ed è alla “Edad de la Esperanza” che Guayasamin stava lavorando nei suoi ultimi anni, un insieme di lavori che erano la sintesi di tutta la sua esperienza di vita e il culmine della sua bravura artistica.
Guayasamín non credeva nella morte. “La morte – diceva – è come il mistero del mais: cade un seme nella terra e germina, e questo è accaduto per millenni ed i popoli d’America hanno ripetuto il mistero del mais una e mille volte”. “Io mi sono moltiplicato e il mio viso si ripeterà ed io lo identifico nei miei figli, nei miei discendenti e nella mia opera”.
”Mantengan encendida una luz, que siempre voy a volver” (Tenete accesa una luce, che tornerò sempre).