Oscar Niemeyer. Il genio confessa…

Oscar Niemeyer. Il genio confessa: e pensare che volevo cambiare il mondo…
di Alberto Riva , Il Venerdì, 07/09/2012
L’unico “moderno” che ha costruito una capitale, Brasilia. L’uomo che ha realizzato una piazza sotto il livello del mare.
Il più grande creatore vivente di architetture si racconta in un lbro italiano e fa un bilancio: “Il mio lavoro non è importante, è solo un prestesto”.

Rio de Janeiro. Il maggior poeta brasiliano si chiama Ferreira Gullar, ha più di ottant’anni e vive a Copacabana in un appartamento pieno di falsi d’autore dipinti da lui. Ha scritto versi bellissimi. Da noi è completamente sconosciuto, come quasi tutto ciò che accade in Brasile e non graviti intorno a un pallone di cuoio, due chiappe abbronzate o un pil emergente o un Bric qualsiasi. Eppure, in quella casa allegra e allo stesso tempo pensosa, anni fa, Gullar mi consegnò una cosa che somigliava a una chiave: la chiave per aprire il Brasile.

Disse: “Quando il Brasile nasce, in Europa l’Illuminismo è al suo apice. Esiste un’eredità brasiliana che proviene dalla cultura indigena e nera, ma ciò che è determinante è il pensiero moderno, europeo, che giunge qui e si fonde con la cultura popolare, stabilendo un dialogo con queste forme di invenzione della realtà. È un dialogo permissivo, o se vuoi, una mancanza di ortodossia”. Mi fece l’esempio del suo amico Vinicius de Moraes, famoso intellettuale, diplomatico e musicista, che girava con un santo di macumba appeso al collo. Vinicius non credeva a quella collana nella maniera in cui ci crede la sacerdotessa del candomblé ma, diceva Gullar, “Vinicius era aperto anche a quello”. Ecco la chiave; aprirsi anche a quello.

Nello stesso quartiere – un quartiere mito – cioè Copacabana, si poteva incontrare allora come oggi qualcuno che aveva tradotto lo stesso concetto in cemento armato. La Rua Duvivier, dove abita Gullar, e la fine dell’Avenida Atlantica, dove tutti i giorni, a centoquattro anni, Oscar Niemeyer viene a lavorare, distano alcune centinaia di metri. A percorrerli si impiega qualche minuto, o qualche anno. Dipende.

Di fronte c’è sempre il mare, a sinistra sempre il Pan di Zucchero, a destra la collana di rocce che finisce a Ipanema e alle spalle si alzano le montagne e la foresta. È Rio, e non c’è niente da fare. La sua geografia è fuori e dentro la gente, così come è dentro e fuori Niemeyer, carioca fino al midollo; la geografia è nelle sue matite di grafite dura, nei fogli bianchi che, dagli anni Venti riempie rapidamente di disegni.

Non ricordo se nel 2005, quando lo incontrai la prima volta, avevo già messo in tasca la “chiave di Gullar”; ma sicuramente l’avevo già persa e ritrovata diverse volte quando lo scorso gennaio, d’estate, con il carnevale e i fiumi di turisti, tornavo nello studio dell’edificio Ypiranga.

Le città che amiamo sono città di uomini che vogliamo conoscere, soprattutto quelle delle patrie che ci scegliamo e in cui, per pezzi della nostra vita, decidiamo di vivere. Niemeyer mi era rimasto in mente, come Jorge Amado, ancora prima di conoscerlo: si legge Cacao, si legge Dona Flor e si desidera scomparire lungo i vicoli di Bahia; si avvista il Museo di Arte Contemporanea di Niterói (un’astronave?), si entra nella Cattedrale di Brasilia (un fiore di vetro?) e si cerca di immaginare il luogo dove nasce un segno così preciso, solare, trasparente.

Nasce in un appartamento esattamente così, solare e trasparente: finestroni sull’oceano, un piano a coda, scaffali, un tavolo rettangolare di plastica, altri scaffali colmi di filosofia, letteratura francese, pittura, poesia, e una stanza fresca e di poca luce. Qui lavora. Dal primo incontro era nata un’intervista e il capitolo di un libro che dedicai a Rio, alla sue voci. Quella di Niemeyer era fondamentale per capire la città, i carioca, i brasiliani che “anche quando sono completamente fottuti si stanno divertendo, stanno scopando. È il clima, è la vita… Il carioca è un essere libero”.

Ora, in questo secondo ritorno nella mente dell’architetto, e nella sua voce così peculiare, nel suo portoghese antico e ricco di espressioni desuete ed eleganti, l’idea era quella di capire lui, e soprattutto capire il segreto di una tale semplicità; capire come il maggior architetto vivente potesse dire che l’architettura “non è importante, ma un pretesto”, e che pur avendo fabbricato sculture architettoniche immense, aver immaginato e realizzato una intera città, la capitale del suo Paese (nel 1956, Brasilia), pur avendo pensato una piazza sotto il livello del mare (Le Havre), un palazzo, anzi più d’uno, come un serpente liquido (la sede del Partito Comunista Francese a Parigi) e un edificio appeso al soffitto e non poggiato sui pilastri (la Mondadori a Segrate), Niemeyer dicesse di non aver realizzato quello che avrebbe dovuto: cioè essere utile al prossimo.
Perché, secondo Niemeyer, l’architettura deve e può trasformarsi in atto politico. E deve farlo attraverso la bellezza, perché la bellezza “serve”.

La bellezza blocca chiunque per strada. La bellezza fa riflettere: e pensare, studiare, intrecciare gli interessi più diversi, inventare e osare sono l’unico modo per cavarsela dinnanzi a un mondo sempre più ingiusto e alla vita che dura il tempo di un respiro. Ha più di cento anni Niemeyer, ma è difficile parlare con qualcuno più sintonizzato sui dolori del presente: per la povertà si è fatto molto, ma è sempre poco. “I ricchi devono diventare meno ricchi e i poveri meno poveri”. Semplice. Niemeyer non conosce espressioni depistanti, compromissorie, molli. Usa spesso l’espressione “è logico”, tanto spesso che sembra un tic. Non lo è. Niemeyer va al punto. Dice: “Il capitalismo è una merda”. Dice: “L’idea di rivoluzione è tutt’ora valida, non si deve mai abbandonare”. Dice: “L’imperialismo esiste ancora, è tutt’ora un grande pericolo”. Dice: “I giovani sono soli e non hanno nessuno con cui confrontarsi”. Gli chiedi cos’è la fantasia, risponde: “La fantasia è la ricerca di un mondo migliore”. Gli chiedi del suo amico Fidel Castro e lui risponde che non ha mai messo piede a Cuba perché ha paura dell’aereo ma, aggiunge, “un giorno forse ci andrò”.
Credo che Niemeyer dica in fondo che abbiamo smesso di sognare e di immaginare, per questo siamo sprofondati in un’epoca di grandi difficoltà. Sente la mancanza della politica vera, che è fatta soprattutto di solidarietà e spirito di fratellanza. Non ama raccontare le imprese personali, ma è noto che diede un tetto al guerrigliero e leader comunista Luis Carlos Prestes quando tornò dall’esilio in Russia. Non crede in Dio. Crede nell’amicizia, sebbene alle sue spalle si agiti, con l’età che ha, un esercito di morti (a giugno ha perso anche l’unica figlia, Anna Maria, aveva ottantadue anni).
Nelle sue frasi affiora spesso la parola più brasiliana di tutte, saudade, che non è nostalgia, non è assenza, ma è il piacere inspiegabile di cullarsi nei ricordi e in quella sofferenza stranamente dolce.

Capisci solo oggi che nel suo segno architettonico c’è tutto questo, e per farlo hai usato la chiave: Niemeyer è l’assenza di ortodossia, è l’esercizio della libertà del carioca e la sua opera maggiore forse è la vita: una forma di invenzione della realtà.
Scheda del libro: Il mondo è ingiusto, di Oscar Niemeyer