Cortázar a través de todas mis edades/Cortázar ao logo das minhas idades/Cortázar attraverso le mie età

Elena Poniatowska_Julio Cortazar

Elena Poniatowska e Julio Cortázar

Italia-50

Cortázar attraverso i miei anni

Di Carlos Skliar
Traduzione di Tania Gibertini

Sono solo un bambino.

Vale a dire: ho paura di perdermi in città, adoro quando qualcuno inciampa e odio la corrente elettrica e l’odore di cavolfiore che a volte arriva dalla cucina.
A malapena posso comprendere la rotondità della terra o l’avvallamento verso l’alto del cielo o i bisbigli che si intromettono nei miei giochi durante l’ora del riposino. Non mi è chiaro di cosa sia fatta l’ombra, che differenza c’è tra i pesci e i miei occhi e, ancor meno, il perché le autostrade si muovono tanto velocemente mentre uno rimane fermo.
Sono un bambino e l’unica cosa che so è che per ora il tempo è il mio compagno di giochi, dentro di me, mentre avverto la fretta intorno, e la collera incomprensibile per una pioggia sparsa o il fastidio per la caduta di un oggetto o la nostalgia per la morte di un foglio giallognolo con lettere e numeri e mesi e giorni. Non so troppe cose, però percepisco che a questo mondo ciò che manca sono le maghe mentre ci sono uomini stanchi di troppo. So anche, per esperienza personale, che il fuoco, qualsiasi fuoco, è tutti i fuochi insieme.

Sono solo un bambino.

Osservo mio padre seduto nella sua poltrona color ocra e sgangherata, col finestrone aperto, fino al tardo pomeriggio, mentre regge tra le mani un libro, assorto, perso e disattento. Vorrei stare con lui, salire sulle sue gambe, vorrei potergli raccontare le sciocchezze della mia età –lo scivolone delle formiche, la morbidezza del mio ombelico, il rumore che fa un soldatino di piombo quando cade a terra- ma mia madre insiste nel dire che non lo devo disturbare, che non lo devo distrarre. Perché?, domando, con questa insistenza ripetitiva e ogni volta differente, questa domanda che vuole sapere tutto riguardo ai fuori orari e ai premiiv. Perché sta leggendo, mi risponde.
“Sta leggendo”è per me, in questo momento, l’unico paesaggio, la vera iniziazione e invito alla lettura: né le biblioteche, né le scuole, né gli insegnamenti, né le industrie.“Sta leggendo” è l’atmosfera che attraversa la nostra casa alle sette del pomeriggio come se fosse uno spiraglio di luce, un soffio di vento, una scheggia, un’esplosione, un fragore, un declino e, finalmente un ritorno.
“Sta leggendo” come se tutto d’un tratto la terra non esistesse, come se la patria sparisse, come se il lavoro non contasse, come se non ci fosse altro se non la presenza di un gesto immortale: il silenzio interrotto dal rumore delle pagine sfogliate, il silenzio spodestato da una voce che viene da dentro, il silenzio come il racconto di un segreto inconfessabile.
Osservo mio padre da lontano o dal basso, senza che lui se ne accorga. È come se lo strappassero, lo arrestassero, lo cambiassero, lo esiliassero. E lo restituissero, poco tempo dopo, con un altro corpo, con altri gesti, con un’altra espressione, con un’altra vita.
Il suo ritorno è riposato e mite insieme. Chiude il libro che ora so essere rosso e mi guarda con occhi dolci, mi accarezza i capelli senza umiliarmi e mi sussurra all’orecchio una promessa che sembra essere affascinante ma che ancora non posso capire: “Presto leggerai anche tu”.
Mio padre legge Cortázar.
Io ancora non so leggere. Guardo mio padre però e mi basta il suo volto per capire la differenza tra “sta leggendo” o “è triste” tra “è lontano” o “tornerò più tardi” tra “ora non posso giocare” o “questo paese mi fa male”.
Io sono un bambino che, mentre aspetta di scoprire il tesoro del leggibile e dell’impronunciabile, desidera solo che continuino a esistere i parchi. E da allora, anche i libri.
Sono appena un ragazzo.

Vale a dire: non so chi sono, né a cosa sono utile, né il motivo per cui esserlo.
Ho insieme l’età della luce e dell’oscurità, della declamazione e del tremore, del tormento e del corpo soffocato e infuocato.
Mio padre mi chiede di stare attento dopo le sette del pomeriggio. Fuori c’è rumore di soldati e dentro risuona una lugubre canzone di desaparecidos. Dove sono i libri? Quali rimarranno tra noi e quali sarebbe stato meglio non leggere? Come è possibile o solo pensabile che alcune lettere nere su un fondo bianco non possano essere, ora, prestate, riferite o imitate?
Già non si affaccia più nessuno per strada. Tutto deve farsi e disfarsi troppo velocemente. Ci sono uomini che sorvegliano. Uomini rozzi, troppo somiglianti alla morte. Ce n’è sempre qualcuno che si aggira da quelle parti. Tutta la prosa dovrà essere concepita in un nascondiglio, in una fogna o in un osservatorio.
Cortázar non è qui. Nessuno è qui.
È il tempo della tortura. È la fine del tempo stesso.
Per coloro che partono è tutto in salita: dalla mancanza di grazia degli edifici, dalla propria lingua a quella altrui, dalla patria allungata a quella distesa, dagli strepiti della gioventù ai labirinti senza uscita della vita adulta, dal silenzio dei genitori al disordine rischioso delle lettere smarrite e screpolate.
Andarsene è un verbo senza ritorno. Ma non è solo questo. È anche un crocevia il cui orizzonte non si lascia vedere. È una ostinazione nel ricordare, come se ogni ricordo lasciasse dietro di sé una mollica di pane in un sentiero inesistente.
Coloro che se ne vanno non possono più decidere tra i ricordi e il presente e, per questo, scrivono lettere rivolte al passato, verso l’infanzia, verso il punto frastornato della partenza, verso l’abisso di un ventre dove l’origine, il nome, il focolare domestico, la patria e il linguaggio si confondono.
Coloro che se ne vanno scrivono racconti per abbellire una vita rovinata, una vita esiliata.
Andarsene è un modo di camminare dove sono le gambe stesse a inciampare sulla propria nostalgia. Fuggono dalla rovina, dalle ferite non rimarginate, dagli addii, dalla guerra in atto, però non possono saltare la pozzanghera come i bambini senza impantanarsi fino al midollo per poi sostenersi, a fatica, tremanti, nel fango.
Salvarsi, sì: ma si salvano veramente le persone che vanno avanti, verso un’altra vita che non smetterà mai di essere un rebus? È come se l’andar via dividesse definitivamente il corpo in due. È come se lo strappasse da sé e dalle rive dove un tempo fu possibile imparare a camminare, ad amare, a liberarsi, a sottrarsi, a considerarsi, a esporsi, a toccarsi, a cercarsi. Andarsene è la morte della prima radice attecchita. È la distruzione del terreno. È l’inizio di una conversazione con la morte. Andarsene: il contrario della voce, l’opposto di tutte le albe.
Io leggo Cortázar, mentre Cortázar è da un’altra parte.
Io leggo Cortázar, per capire la differenza tra la terra, il tormento e il cielo. Io leggo Cortázar e nascondo le copertine dei suoi libri con incarti grigi di giornali assassini o fogli dai colori cupi.
Io leggo Cortázar perché bisogna decidersi una volta per tutte se essere cronopio o fama.

Sono un uomo ora.

Voglio dire: parlo di cose ormai successe molto tempo fa.
Ho l’età che preannuncia il ritorno: ritornare a qualche luogo, a qualche istante, a qualche secondo in cui tutto sia nuovamente possibile.
Non si ritorna mai veramente: si rende presente un’assenza fino a qui sconosciuta. Si sente la mancanza di ciò che è stato dimenticato.
Il tempo è l’unico spreco che non torna. È possibile però trovare particelle non del tutto dissolte, la stessa conversazione di sempre, uno sguardo che sembra accompagnarci da tutte le parti.
Tornare uguale ad ascoltare: le vite altrui che si soffermano senza suscitare alcuna commozione. Tornare uguale a tacere: non manca nessuna parola. La verità è che niente assomiglia a prima e niente sta al suo posto. Forse perché non c’è mai stato un vero posto né c’è mai stato un vero prima. Non c’è stato un cielo diverso, ancora più cielo; la foglia di una pianta dimenticata ora curva sopra un ramo teso; il tetto né troppo alto né troppo dritto o un sinuoso suono estraneo che sembra aver aspettato secoli prima di essere ascoltato. Coloro che se ne sono andati cercano carte che credevano non esserci più e trovano segni indifesi, soli, come se il linguaggio che abbandonarono non fosse già più linguaggio. Le distanze sono state abolite: niente è stato mai tanto vicino, niente sarà mai così poco distante. Coloro che se ne sono andati tornano per cominciare da capo: gli sguardi prima della parola, gli abbracci prima delle trappole, lo spogliarsi prima del tradirsi. Cortázar ritorna al suo patio, alla sua casa, al suo svago, ai suoi fuori orari. Lui che muore poco dopo.
Io leggo Cortázar a mio padre. Mio padre che ora può solo stare seduto nella sua poltrona color ocra mai tappezzata. Mio padre che parla poco e di cose che non capisco. Mio padre dal corpo stanco e con le finestre ormai già chiuse.
Io leggo Cortázar a mio padre e gli faccio una promessa, sussurrata all’orecchio: “Presto, tornerò a leggerti qualcosa”.

Bandeira_Brasil

Cortázar ao longo de minhas idades
Carlos Skliar
Tradução: Adail Sobral

1.
Sou criança.
Isto é: fico em pânico se me perco na cidade, adoro os encontrões e não gosto da corrente elétrica e do cheio de couve-flor que às vezes vem da cozinha e busca, impiedoso, meu nariz.
Ainda não decidi o que sentir com o fogo nem o que pensar do jazz ou do colégio.
Apenas posso sim entender a redondeza da terra ou a profundidade no céu lá em cima ou os murmúrios que meus brinquedos pronunciam na hora da sesta. Não entendo de que é feita a sombra, qual a separação entre os peixes e meus olhos, e muito menos por que as estradas se movem tanto enquanto ficamos parados desejando apenas o deslizamento da planície.
Sou criança e só sei que o tempo agora joga comigo, em mim, enquanto percebo a pressa ao redor e o enfado contra uma chuva dispersa ou a angústia pela perda dos objetos inúteis ou a tristeza pela partida de cada papel amarelento com letras e números e meses e dias.
Não sei muita coisa, mas vejo que neste mundo faltam feiticeiras e sobram homens consternados.
Sou criança.
Olho para meu pai perto do final da tarde, com a janela aberta até as nuvens, sentado em sua cadeira ocre jamais revestida, segurando um livro entre as mãos, absorto e perdido e desatento. Queria estar com ele, subir em seu colo, gostaria de lhe contar insignificâncias – o andar errante das formigas, a suavidade de meu umbigo, o ruído causado por um soldadinho de chumbo ao se chocar contra o chão – mas minha mãe insiste que eu não o incomode. “Por quê?”, pergunto, com uma insistência que se repete e é diferente a cada vez, essa pergunta que deseja saber tudo e não saber nada sobre as inconveniências e as recompensas. “Porque está lendo.” – responde ela.
“Está lendo” é para mim, neste momento, a única paisagem verdadeira a iniciar-me e convidar-me à leitura: nem as bibliotecas, nem as escolas, nem as doutrinas, nem as industrias. “Está lendo” é a atmosfera que percorre a casa às sete da noite, como se fosse uma luminosidade, um vento, uma partícula, um estalido, um estrondo, um declive e, finalmente, um regresso.
“Está lendo” – como se a terra não existisse, como se a pátria desaparecesse, como se o trabalho não contasse, como se houvesse apenas a presença de um gesto perpétuo: o silencio interrompido pelo canto das páginas, o silencio destronado por uma voz que vai para dentro, o silencio como relato de um segredo inconfessável.
Olho meu pai de longe e de baixo, sempre dissimulando. É como se o arrancassem, o detivessem, o mudassem, o desterrassem. E o devolvessem, pouco depois, com outro corpo, com outros gestos, com outra vida.
Seu retorno é atrevido e vago, quase claro-escuro. Fecha o livro, que agora é vermelho, e me olha com olhos sensíveis, acaricia-me a cabeça sem humilhar-me e me sussurra ao ouvido uma promessa fascinante que ainda não entendo: “Logo logo vais saber o que é ler”.
Meu pai lê Cortázar.
Eu ainda não leio. Mas olho meu pai e percebo em seu semblante a diferença entre “está lendo” e “está preocupado” ou “está longe” ou “volta mais tarde” ou “esta tarde não pode jogar” ou “este país o incomoda”.
Sou uma criança que, enquanto espero deter-me no tesouro do legível e do impronunciável, só desejo a continuidade dos parques. E, desde então, também a continuidade dos livros.
2.
Sou jovem.
Isto é: não sei quem sou, nem para quê, nem porque sê-lo.
Tenho a idade da luz e da escuridão. Da declamação e do tremor. Do tormento e do corpo áspero e frenético.
Meu pai me pede que me cuide depois das sete da noite. Lá fora há um rumor de soldados e dentro uma lúgubre canção de desaparecidos. Onde estão os livros? Quais ficarão conosco e quais será melhor nunca ter lido? Como é possível que uma letras escuras sobre fundo claro não possam ser, agora, oferecidas, ou vociferadas, ou imitadas?
Já não se vai à rua. Deve-se fazer e desfazer tudo demasiado rapidamente. Há homens vigiando. Homens brutais, demasiado parecidos com a morte. Há alguém que anda por aí, sempre. E toda conversa tem de acontecer em algum esconderijo, algum recôndito, algum lugar seguro.
Cortázar não está aqui. Ninguém está aqui.
É o tempo da tortura. O fim do tempo.
Tudo é vertical para aqueles que partem: da superfície dos edifícios, da língua própria à alheia, da pátria alargada à pátria encompridada, da estridência da juventude aos labirintos sem saída da vida adulta, do silêncio dos pais ao ruído aleatório das cartas extraviadas e censuradas.
Ir-se é um verbo sem volta. Mas não só. É também uma encruzilhada cujo horizonte não se deixa ver. Uma obstinação por relembrar, como se cada lembrança deixasse uma migalha de pão numa trilha inexistente.
Quem se vai não pode decidir entre as lembranças e o presente e, por isso, escreve cartas para trás, para a infância, para o impreciso ponto de partida, para o abismo de um ventre onde se confundem a origem, o nome, o lar, a pátria e a linguagem.
Quem se vai escreve contos para embelezar a vida arruinada, a vida exilada.
Ir-se é um modo de caminhar por onde as pernas tropeçam com sua própria nostalgia. Escapa da ruína, das feridas boquiabertas, das despedidas, da guerra por vir, mas não pode saltar o pântano como as crianças sem se sujar até a medula e manter-se, a duras penas, trêmulos, na lama.
Salvar-se sim. Mas se salvam as pessoas que vão para adiante, para outra vida que nunca deixará de ser um hieróglifo? Como se ir-se partisse definitivamente o corpo. Como se o arrancasse de si mesmo e das margens onde foi possível aprender a caminhar, a amar, a soltar-se, a remover-se, a pensar-se, a tocar-se, a buscar-se. Ir-se é a partida das primeiras raízes. A destruição do solo. O início da conversa com a morte. Ir-se: o contrário de uma voz. O oposto de todo amanhecer.
Leio Cortázar, enquanto Cortázar está em outro lugar.
Leio Cortázar, para entender a diferença entre a terra, o tormento e o céu. Leio Cortázar e disfarço a capa de seus livros com tristes capas de jornais assassinos ou papéis de cores sombrias.
Leio Cortázar porque é preciso decidir de uma vez se vou ser cronópio ou fama.

3.
Sou adulto.
Quero dizer: falo de coisas que ocorreram há muito tempo.
Tenho a idade da promessa de regresso: regressar a algum lugar, a algum instante, a algum segundo onde tudo seja possível de novo.
Mas não se regressa: faz-se presente uma ausência até aqui desconhecida. Sente-se falta do esquecido.
O tempo é o único desperdício que não volta. Mas é possível encontrar partículas ainda não desfeitas, a mesma conversa de sempre, um olhar que parece nos acompanhar a toda parte.
Voltar como escutar: as vidas alheias nada demoram em comover. Voltar como calar: nenhum palavra falta. E eis que nada se parece com o antes, nada está em seu lugar. Talvez porque jamais houve lugar, nem houve anterioridade. Um céu distinto, talvez mais céu; uma folha da planta esquecida agora curvada sobre um tronco esticado; o teto não tão alto nem tão reto, e um sinuoso som distante que parece ter esperado séculos para ser escutado.
Quem se foi busca papéis que acreditava estar acabados e encontra sinais desprotegidos, sós, como se a linguagem que deixaram já não fosse a linguagem. Se aboliram as distâncias: nada esteve tão perto, nada será tão próximo. Quem se foi volta para começar: os olhos antes da palavra, os abraços antes das armadilhas, o desnudar-se antes do desdizer-se. Cortázar volta ao seu pátio, a sua casa, a seu recreio, a suas inconveniências. E logo depois morre.
Leio Cortázar para meu pai. Meu pai agora só consegue ficar sentado em sua cadeira ocre jamais revestida. Meu pai que fala pouco e de coisas que não entendo. Meu pai com o corpo entristecido. As janelas já fechadas.
Leio Cortázar para meu pai e lhe digo, entre sussurros: “logo logo voltarei a ler para ti”.

Spagna-50

Cortázar, a través de todas mis edades.
Carlos Skliar.

 

Soy niño.
Es decir: no quisiera perderme en la ciudad, adoro los tropezones y odio la corriente eléctrica y el olor a coliflor que a veces llega desde la cocina.
Apenas si puedo comprender la redondez de la tierra o la hondonada hacia arriba del cielo o los murmullos que atraviesan mis juegos a la hora de la siesta. No entiendo de qué está hecha la sombra, qué separación existe entre los peces y mis ojos y, mucho menos, porqué las autopistas se mueven tanto mientras uno permanece quieto.
Soy niño y lo único que sé es que el tiempo ahora juega conmigo, en mí, mientras noto la prisa alrededor, y el enfado inconcebible contra una lluvia dispersa o la desazón por la caída de un objeto al suelo o la nostalgia por la partida de un papel amarillento con letras y números y meses y días. No sé demasiado, pero percibo que a este mundo le faltan magas y le sobran hombres consternados. También sé, por experiencia propia, que el fuego, cualquier fuego, es todos los fuegos.
Soy niño.
Miro a mi padre sentado en su sillón ocre y desvencijado hacia el fin de la tarde, con el ventanal abierto, sosteniendo un libro entre sus manos, absorto y perdido y desatento. Quisiera estar con él, subirme a su falda, quisiera contarle nimiedades –el desliz de las hormigas, la suavidad de mi ombligo, el ruido que provoca un soldadito de plomo al chocar contra el suelo-  pero mi madre insiste en que no lo moleste, que no lo distraiga. ¿Por qué?, pregunto, con esa insistencia repetitiva y diferente cada vez, esa pregunta que desea saberlo todo acerca de las deshoras y los premios. Porque está leyendo, me responde.
“Está leyendo” es para mí, ahora mismo, el único paisaje, la verdadera iniciación e invitación a la lectura: ni las bibliotecas, ni las escuelas, ni las doctrinas, ni las industrias. “Está leyendo” es la atmósfera que atraviesa la casa a las siete de la tarde como si se tratara de una luminosidad, de un viento, de una esquirla, de un estallido, de un estruendo, de un declive y, finalmente, de un regreso.
“Está leyendo” como si la tierra no existiese, como si la patria desapareciese, como si el trabajo no contase, como si no hubiera sino la presencia de un gesto imperecedero: el silencio interrumpido por el canto de las páginas, el silencio destronado por una voz hacia dentro, el silencio como relato de un secreto inconfesable.
Miro a mi padre desde lejos o desde abajo, siempre con disimulo. Es como si lo arrancaran, lo detuvieran, lo mutaran, lo desterraran. Y lo devolvieran, tiempo después, con otro cuerpo, con otros gestos, con otro semblante, con otra vida.
Su regreso es fresco y tibio al mismo tiempo. Cierra el libro que ahora es rojo y me mira con buenos ojos, me acaricia la cabeza sin humillarme y me susurra al oído una promesa fascinante que todavía no entiendo: “Ya leerás dentro de poco”.
Mi padre lee a Cortázar.
Yo aún no leo. Pero miro a mi padre y percibo la diferencia en su rostro entre “está leyendo” y “está triste” o “está lejos” o “volveré más tarde” o “no puedo jugar ahora” o “este país me duele”.
Yo soy un niño que, mientras espero el tesoro de lo legible y lo impronunciable, sólo deseo la continuidad de los parques. Y desde entonces, también la continuidad de los libros.
Soy joven.
Es decir: no sé quién soy, ni para qué, ni porqué serlo.
Tengo la edad de la luz y la oscuridad. De la declamación y el temblor. Del tormento y del cuerpo ronco y enardecido.
Mi padre me pide que me cuide después de las siete de la tarde. Fuera hay un rumor a soldados y dentro hay una lúgubre canción de desaparecidos. ¿Dónde están los libros? ¿Cuáles se quedarán entre nosotros y cuáles será mejor nunca haber leído? ¿Cómo es posible que unas letras negras sobre fondo blanco no puedan ser, ahora, prestadas, o vociferadas, o imitadas?
Ya no se asoma uno por la calle. Todo debe hacerse y deshacerse demasiado rápido. Hay hombres vigilando. Hombres toscos, demasiado parecidos a la muerte. Hay alguien que anda por ahí, siempre. Y toda prosa habrá de hacerse desde un escondite, desde una alcantarilla o desde un observatorio.
Cortázar no está aquí. Nadie está aquí.
Es el tiempo de la tortura. El fin del tiempo.
Todo es vertical para aquellos que parten: de la lisura de los edificios, de la lengua propia a la ajena, de la patria alargada a la patria estirada, de la estridencia de la juventud a los laberintos sin salida de la vida adulta, del silencio de los padres al barullo azaroso de las cartas traspapeladas y despellejadas.
Irse es un verbo sin regreso. Pero no sólo. También es una encrucijada cuyo horizonte no se deja ver. Una obstinación por recordar, como si cada recuerdo dejara una migaja de pan en un sendero inexistente.
Quienes se van no pueden decidir entre los recuerdos y el presente y, por ello, escriben cartas hacia atrás, hacia la infancia, hacia el punto atolondrado de partida, hacia el abismo de un vientre donde el origen, el nombre, el hogar, la patria y el lenguaje se confunden.
Los que se van escriben cuentos para embellecer la vida arruinada, la vida exiliada.
Irse es un modo de caminar donde las piernas se trastabillan con su propia nostalgia. Se escapan de la ruina, las heridas boquiabiertas, las despedidas, la guerra en ciernes, pero no pueden saltar el charco como los niños sin embarrarse hasta la médula y sostenerse, a duras penas, temblorosos, en el fango.
Salvarse, sí: ¿pero se salvan las personas que se van hacia adelante, hacia otra vida que no dejará de ser nunca un jeroglífico? Como si irse partiese al cuerpo definitivamente. Como si lo arrancase de sí y de las orillas donde fue posible aprender a caminar, a amar, a soltarse, a quitarse, a pensarse, a jugarse, a tocarse, a buscarse. Irse es la partida del arraigo primero. La destrucción del suelo. El inicio de la conversación con la muerte. Irse: lo contrario de una voz. Lo opuesto a todo amanecer.
Yo leo a Cortázar, mientras Cortázar está en otra parte.
Yo leo a Cortázar, para entender la diferencia entre la tierra, el tormento y el cielo. Yo leo a Cortázar y disimulo las tapas de sus libros con envoltorios grises de periódicos asesinos o papeles de colores sombríos.
Yo leo a Cortázar porque hay que decidirse de una vez si uno será cronopio o fama.
Soy adulto.
Quiero decir: hablo de cosas que ocurrieron hace ya mucho tiempo.
Tengo la edad de la promesa del regreso: regresar a algún sitio, a algún instante, a algún segundo donde todo sea posible de nuevo.
Pero no se regresa: se hace presente una ausencia hasta aquí desconocida. Se echa de menos lo olvidado.
El tiempo es el único desperdicio que no vuelve. Pero es posible encontrar partículas aún no deshechas, la misma conversación de siempre, una mirada que parece acompañarnos a todas partes.
Volver como escuchar: las vidas ajenas demoran nada en conmover. Volver como callar: ninguna palabra falta. Y es que nada se parece a lo anterior, nada está en su sitio. Quizá porque jamás hubo sitio ni hubo anterioridad. Un cielo distinto, tal vez más cielo; una hoja de una planta olvidada ahora curvada sobre una rama tensa; el techo no tan alto ni tan recto y un sinuoso sonido ajeno que parece haber esperado siglos para ser escuchado.
Quienes se han ido buscan papeles que creían acabados y encuentran señales desprotegidas, solas, como si lenguaje que dejaron ya no fuese el lenguaje. Se han abolido las distancias: nada estuvo tan cerca, nada será tan próximo. Quienes se han ido vuelven para comenzar: los ojos antes que la palabra, los abrazos antes que las trampas, el desnudarse antes que el desdecirse.
Cortázar regresa a su patio, a su casa, a su recreo, a sus deshoras. Y, enseguida, muere.
Yo leo Cortázar a mi padre. Mi padre que ahora sólo puede estar sentado en su sillón ocre jamás tapizado. Mi padre que habla poco y de cosas que no comprendo. Mi padre con el cuerpo desanimado. Las ventanas, ya cerradas.
Yo le leo Cortázar a mi padre y le digo, entre susurros: “ya volveré a leerte, quizá dentro de muy poco tiempo”.