César Vallejo: Tungsteno

Cari amici, condividiamo con tutti voi  la recensione del Tugnsteno (pubblicata a Madrid, nel 1931), opera scritta per il nostro amato Poeta Universal: César Vallejo.

Tungsteno è stato tradotto da  Francesco Verde, EDIZIONI SUR; 2015.

“Nel Perù di inizio Novecento, l’impresa statunitense Mining Society acquista le miniere di tungsteno della zona di Cuzco, creando un giro d’affari inconsueto per gli abitanti del luogo. Ma l’arrivo dei gringos equivale a un’invasione nelle terre ancestrali degli indigeni, e nelle loro vite. Ben presto il lavoro in miniera si trasforma in schiavitù. Il lettore non può restare indifferente all’esplicito atto di denuncia
contenuto nel romanzo; è costretto a prendere una posizione, come fa l’agrimensore Leónidas Benites, uno dei protagonisti. Con un linguaggio diretto ed estremamente visuale, Vallejo intreccia una narrazione che è prima di tutto politica, ancora attuale a più di ottant’anni dalla sua prima pubblicazione: una riscoperta necessaria”.
Il testo che segue è la trascrizione parziale della conferenza tenuta il 18 giugno 2016 a Roma, presso la libreria “Le Storie” (via Giulio Rocco 37/39), dal traduttore dell’opera, Francesco Verde. Pubblicato non in Perù ma in Spagna, nel 1931,

El tungsteno segna il passaggio del prosatore César Vallejo (il poeta, fra i maggiori del secolo scorso, non ha certo bisogno di presentazioni) dallo stile fortemente letterario di Fabla salvaje o dei racconti compresi in Escalas melografiadas (opere entrambe del 1923) a un realismo di aspra denuncia sociale e politica. Il titolo della collana cui viene destinato dall’editore madrileno ha già del programmatico: La novela proletaria, “Il romanzo proletario”.
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Vi confluiscono senz’altro motivi autobiografici — Vallejo era vissuto nella sierra e aveva lavorato nelle minas di Quiruvilca: tolte due lettere, resta Quivilca — ma ciò che davvero lo connota e discosta dal romanzo indigenista, soltanto descrittivo della condizione di miseria e schiavitù dell’indio, è proprio l’impronta ideologica: evidentissima nel capitolo finale, il terzo, che per questo si legge quasi come un
pamphlet, un libello propagandistico, da agit-prop.
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La maggiore consapevolezza politica induce Vallejo ad aggiungere i gringos, gli americani neo-conquistadores, alla triade tipica di sfruttatori presente nel romanzo indigenista (il prefetto, il sindaco, il parroco) e a prospettare — non esistendo ancora in Perù un consistente proletariato urbano — l’alleanza rivoluzionaria di indios e cholos. Servando Huanca, che nel terzo capitolo martella con queste idee l’esitante mezzo-borghese Benites, è appunto un cholo, un meticcio inurbato.
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Il romanzo si articola dunque in tre capitoli, che non è azzardato definire anche ‘scene’ o ‘quadri’, accogliendo il suggerimento dell’ottimo Fofi prefatore, in ragione di uno sviluppo similteatrale, di cui dà conferma, per esempio, il frequente ricorso al dialogato: capitoli autonomi all’apparenza (ciascuno potrebbe considerarsi racconto a sé stante) e invece tenuti insieme con notevole abilità narrativa, facendo agire i personaggi (tipi antropologico-sociali semplificati ad arte, in qualche caso fino alla macchietta) dentro la medesima cornice geografica, e seguendo di fase in fase l’evoluzione ideologica del carattere principale: Léonidas Benites, il solo in effetti a essere sempre in scena, dal primo all’ultimo atto.
Lo si sente all’inizio, tutto preso dall’incarico di agrimensore, biasimare apertamente i soras, ai suoi occhi null’altro che selvaggi, meritevoli di essere depredati — laddove lo spontaneo comunismo degli indios, la loro totale mancanza di calcolo economico vengono esaltati dal narratore, e contrapposti al feroce interesse capitalistico della Mining Society. Poi, cristiano fervente e un tanto nevropatico, lo si scopre escluso dalla comunità mineraria, emarginato dai suoi stessi compari e colleghi, con l’unico affetto d’una vecchia bizzoca, che forse gli ricorda la madre lontana e che, come una madre, l’assiste durante il delirio febbrile. Infine lo si ritrova, senza più lavoro,
cacciato dalla Mining, a confabulare in una baracca con Servando Huanca.
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A ben leggere, la semplificazione, la resa caricaturale dei personaggi devono giudicarsi non difetti, ma espedienti del tutto funzionali all’idea narrativa del Tungsteno. Vallejo se ne serve sapientemente, per ridurre la complessità morale e psicologica del personaggio rappresentato ai tratti generici, ma distintivi, della classe d’appartenenza: l’agrimensore Benites, i commercianti Marino, il fabbro
Huanca interessano come exempla, paradigmi sociali, non come individui, e quindi come: intellettuale fallito, ex facchini arricchitisi, proletario rivoluzionario.
I fratelli Marino in particolare sono, con ogni evidenza, dei grotteschi prototipi. Salariati senza coscienza di classe, giunti chissà come a metter su una florida
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impresa commerciale, esprimono al massimo grado i peggiori vizi del loro nuovo status piccolo-borghese: scaltrezza, ipocrisia, avidità. Il più sordido, il più repellente dei due, José, è anche — insieme con Benites — figura di raccordo tra il primo e il secondo capitolo: colpevole tanto dello stupro collettivo di Graciela, ordito nel suo bazar a Quivilca, quanto della sottomissione carnale di Laura in casa di Mateo, a
Colca. Laura la campesina, condivisa sessualmente dai fratelli Marino, anzi proprietà della Marino Hermanos, sembra essere del resto personaggio ad hoc, grazie al quale Vallejo riesce a giustapporre le psicologie malate di José e Mateo, allo scopo di rimarcarne, sia pure un poco in caricatura, le specifiche abiezioni: tali da metterli, una volta sbrigati gli affari, l’uno contro l’altro.
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Gli episodi clou del romanzo — efferati al punto da imporre a Vallejo una scrittura iperbolica e al contempo crudamente oggettiva, senza più accentuazioni comiche o satiriche — sono quello del già ricordato stupro di gruppo, che causa la morte di Graciela Rosada, e quello dell’arresto a Guacapongo dei due yanaconas Braulio Conchucos e Isidoro Yépez, con la loro marcia forzata fino alla sottoprefettura di
Colca, dove li attende un campionario di turpi biografie (il sottoprefetto, il sindaco, il giudice, il cacicco), in seduta per valutarne l’idoneità al servizio militare. La morte di Conchucos durante l’interrogatorio scatena poi la rivolta popolare, capeggiata dal fabbro Huanca e brutalmente repressa dai gendarmi.
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La violenza carnale sulla giovane chola Graciela evoca subito, come chiara metafora, la violenza imperialistica perpetrata ai danni del Perù e dell’intero Sudamerica; non foss’altro perché i violentatori sono gli stessi: dirigenti d’impresa yankee e loro autoctoni leccapiedi. “Yo soy todo de los yanquis!”, urla ubriaco, a un certo punto del romanzo, il sindaco di Colca: “Io devo tutto agli yankees!”
Chi non prende parte allo stupro nel bazar di Marino è lui, Léonidas Benites, giustamente raffrenato dalla sua morale cristiana, addotta però non molte pagine prima a giustificazione o santificazione del sopruso affaristico, del successo individuale anche a scapito del prossimo. In altre parole: il devoto al Sacro Cuore di Gesù non sfugge alla nuova, dominante ideologia borghese e si dimostra (se non in
atto, almeno nei pensieri) anch’egli un profittatore, anch’egli un violentatore, non così diverso da Marino e parroquianos.
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Qualche altra considerazione merita l’idioma del Tungsteno: volutamente medio (forse in polemica con certe vacue sperimentazioni modernistiche) e spesso imitativo del parlato, con opportuni, dosati peruvianismi. Escludendo, tuttavia, la parte del secondo capitolo in cui si narra l’incubo di Benites, tanto linguisticamente peculiare, tanto estranea al resto del romanzo, da far pensare a un’interpolazione:
quel che di fatto è, provenendo da un testo, Sabiduría, apparso quattro anni prima in Amauta, la rivista di José Carlos Mariátegui. Vallejo ne sfronda il lessico, ne asciuga la sintassi, vi introduce soras e Mister Taik e lo trasforma in una specie di divagazione stilistica — probabilmente non necessaria, ma tollerabile — all’interno del Tungsteno, cioè di un disegno narrativo concepito per coniugare letteratura e
“pegno” sociale, ricorrendo di nuovo a Fofi.
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È vecchia, ma non priva d’interesse, la discussione se si tratti o no di un romanzo “a tesi”, modellato su una concezione prestabilita, adeguato a una normativa extraletteraria che, inevitabilmente, gli sottrae qualità estetica.
Io credo che El tungsteno rientri nella categoria, ma che comunque — schematico “per scelta”, per rispondere cioè alle esigenze rivoluzionarie del Perù di quegli anni — si conservi in una dimensione coerentemente letteraria.
Vallejo lo chiama anche novela-reportaje, romanzo-reportage, volendo significarne la distanza dal cosiddetto psicologismo, dal romanzo psicologico, i cui personaggi, e l’autore con essi, ininterrottamente riflettono su esperienze e sentimenti personali.
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In poco più di cento pagine, El tungsteno condensa situazione sociale prerivoluzionaria e ritratti personali, ammettendo finanche l’esistenza di una residua, incorrotta umanità in due dei “cattivi” oligarchi del Cuzco: il liberale e conciliante medico Riaño e il pusillanime, ma in buona fede, Léonidas Benites.
E se non può definirsi un capolavoro — Fontamara del nostro Silone, al quale Fofi lo associa, gli è di sicuro superiore — tuttavia riproduce un mondo reale, che si esprime con le sue proprie voci, e in cui sono i nudi fatti raccontati, non le sottese idee politiche dell’autore, a reclamare il cambiamento.