I migranti nella realtà virtuale di Alejandro Iñárritu
C’è Carmen che a 22 anni è fuggita dalle gang criminali che infestano il suo paese, l’Honduras. Ha attraversato il deserto con il figlio di tre anni. Il bambino era talmente disidratato che Carmen si è praticamente consegnata alle guardie di frontiera statunitensi, che l’hanno ammanettata e rinchiusa in una cella.
Poi c’è John, 64 anni, agente di frontiera californiano. John ha visto morire molte persone per disidratazione. Vedere accartocciarsi così un essere umano, senza poter fare niente perché ormai è troppo tardi, è uno spettacolo che l’ha segnato per la vita. “Vedi la vita che lascia i loro corpi”, dice “e non c’è nulla che tu possa fare”.
Un’esperienza immersiva
Lina, Carmen, John ma anche Amaru, Selena, Francisco e Yoni sono persone vere che hanno deciso di prestare le loro storie, i loro visi e i loro corpi al regista messicano Alejandro G. Iñárritu (Amores Perros, Birdman e Revenant-Redivivo), per un’operazione che non è né un film né un’installazione. Carne y arena, in mostra su prenotazione alla fondazione Prada di Milano fino al 15 gennaio, viene definita dallo stesso regista e da Germano Celant, il curatore, come un’esperienza.
C’è, in effetti, qualcosa del film, perché i personaggi, persone vere e non attori, hanno rivissuto la loro storia di migranti sotto la direzione dì Iñárritu. Ma di sicuro non hanno propriamente recitato. Carne y arena è un’esperienza immersiva che grazie alla realtà virtuale e alla tecnologia di Oculus Rift, riesce a far entrare lo spettatore, rigorosamente da solo e bardato con zaino, visore e cuffie, nel mezzo del deserto tra Messico e Stati Uniti.
Scalzo, infreddolito e spaventato, lo spettatore sviluppa un’immediata empatia con i suoi compagni di viaggio virtuali. Si sentono i bambini piangere, le persone più deboli e stanche lamentarsi. C’è un momento in cui si è tentati di levarsi le cuffie e fuggire e succede neanche a tre minuti dall’inizio. Ben prima che arrivino le pattuglie di frontiera con le loro torce elettriche e i loro cani ringhianti al guinzaglio.
Si sente freddo, ci si sente soli e il terreno è duro e più che di sabbia il deserto è fatto di minuscoli, acuminati sassolini. Sai di essere al sicuro, con due assistenti che subito prima ti spiegano tutto e che saranno sempre con te a tirarti dolcemente per lo zaino se esci dal campo dell’esperienza virtuale. Eppure a un livello del tutto irrazionale, proprio come succede al cinema, ma con molta più forza, sei lì con Lina, Carmen e tutti gli altri. La differenza con il cinema è che non c’è una cornice a separarti da loro: sei dentro. E soprattutto, in una manciata di secondi, diventi uno di loro.
Tornare a essere persone
Cancellare la distanza emotiva tra noi e loro è l’obiettivo del lavoro di Iñárritu che con questa magia tecnologica (né cinema d’azione né documentario ma neanche feticistico esercizio di videoarte), riesce per dieci lunghissimi minuti a invertire il processo di disumanizzazione che in occidente siamo ormai abituati ad applicare ai migranti.
In Carne y arena i migranti non sono più una statistica, una riga in un reportage o uno spauracchio da sventolare per ragioni elettorali. Tornano a essere persone che senti piangere, respirare forte e vivere accanto a te. Il regista muove le leve che ben conosce del cinema d’azione, soprattutto con l’uso della luce e del suono, ma poi ne muove altre più segrete: ti spiega, senza parole, che tu sei loro e che loro sono te.
Carne y arena sarà premiato con un riconoscimento speciale agli Oscar per la sua “visionaria e potente esperienza di racconto”. L’Academy non prevedeva un premio come questo da 22 anni, l’ultima volta l’ha assegnato a John Lasseter che, con Toy story, aveva creato il primo lungometraggio animato interamente realizzato con mezzi digitali.