Victoria Ocampo, la vamp che scoprì Borges

Lo chiamava Georgie. Ne capì subito il genio. Ma ne temeva l’ironia. Poi le loro strade si divisero. In un libro la tumultuosa parabola di Victoria Ocampo (Victoria Ocampo Aguirre (Buenos Aires, 7 aprile 1890 – Buenos Aires, 27 gennaio 1979), l’Alma Mahler d’Argentina.

di Maurizio Chierici

02 marzo 2016

Con la disinvoltura della signora di gran mondo lei lo invita a pranzo nella villa di San Isidro, giardini affacciati sul Rio della Plata, estate argentina 1927. Tavolo per due. Lei, Victoria Ocampo, 37 anni, grande famiglia nella storia del Paese. Lui, Jorge Luis Borges, 28 anni, la conosce da lontano: gli articoli sulla Nación e la leggenda degli amici che la raggiungono attraversando i mari, dal filosofo spagnolo Ortega y Gasset a Tagore, poeta indiano in profumo di Nobel. Georgie (da ragazzo lo chiamano così e così firmava le lettere di confidenza) arriva in doppiopetto di lino bianco, cravatta parigina, con l’eleganza di un poeta sconosciuto per i versi dispersi nelle riviste che morivano da un anno all’altro. La Buenos Aires dei letterati ne diffidava per l’intemperanza dell’aver collaborato a Prisma, manifesto murale dell’Ultraismo, movimento spagnolo che immaginava di seppellire Marinetti e il surrealismo. Borges incolla i fogli avventurosi sui palazzi delle avenide. Torna a casa con «le mani di gomma».

Quando riceve l’invito di Victoria va in confusione. «Di cosa potrò parlare?». La madre gli dà coraggio: «Sarà lei a dirti cosa». E il giovanotto ripassa la vita scandalosa della bella ereditiera che sfida la pruderie della provincia argentina dove le mogli restano proprietà del marito. E poi le chiacchiere sulla vita scandalosa. Prima di sei sorelle, famiglia senza pensieri. Soggiorni e studi a Londra e alla Sorbonne col conforto di una «folta servitù». Istitutrici inglesi e francesi e il suo circolo letterario che indispettisce gli intellettuali argentini. Le rimproverano l’incanto per scrittori, architetti, saggisti stranieri, l’ambizione che sfuoca gli intellettuali porteni. Non è proprio così e l’invito a Borges lo prova. Il quale torna dal pranzo con l’impressione di essere stato «convocato». Eppure Victoria lo intriga. Discorrono fino al tramonto inseguendo miti e personaggi che illuminano fantasie dagli incroci lontani. Due righe per ringraziarla «felice di aver suscitato in lei quelle meravigliose precisazioni sulle imprecisioni della nostra lingua», spagnolo nel quale Victoria scivolava con affanni veniali. Per La Nación scriveva in francese e a La Nación traducevano brontolando l’insopportabile eccentricità.

Il Borges che ha lavato i panni a Siviglia ne prende nota senza infierire. Li unisce l’incanto per la lingua di Molière «meglio organizzata del castigliano». Aggiunge nel congedo «se mai scriverò una pagina soddisfacente prometto di inviargliela». Fa capire di aver capito cosa la signora stia preparando, progetto impossibile da immaginare in un Paese alla fine del mondo: Sur, rivista del salotto letterario che prova a raccogliere le voci di ogni continente. L’impressione suscitata da Borges accompagna Victoria per la vita: «Timido nell’atteggiamento, nella voce, nel porgere la mano». Ma nelle pieghe della ritrosia avverte un’ironia che non sopporta: «Mi fa lo stesso effetto che provoca una goccia di limone su un’ostrica fresca». Lo ripete con fastidio perché ne ha intuito il genio. Lui la trova «autoritaria, perentoria, dominatrice». Tra un’incomprensione e la sua ricomposizione non si lasceranno mai mantenendo la distanza di quel lei che diverte i compagni di ventura.

Nella rete di Victoria Georgie trova un posto al sole fra poeti e narratori ammirati sui libri. E loro attraversano l’Oceano perseguitati dai suoi labirinti che inquietano gli specchi di Victoria, curiosa e ossessionata dall’impossibilità di scoprire le pieghe invisibili della fantasia del giovanotto che non riesce a definire. Prova a decifrarne la biografia con le trappole della psicanalisi: «Ci sono stati molti militari nella sua famiglia, lei crede che la penna non scalfisca il ferro della lancia?». Borges si nasconde nella storia: «La poesia ha inizio dall’epica e il suo primo tema è proprio la guerra». Memorie e lettere sono nel Dialogo con Borges, traduzione di Paolo Collo, editore Archinto, prologo di Maria Kodama, moglie giapponese dello scrittore. I suoi occhi hanno raccontato i libri e la vita per illuminare negli ultimi anni le ombre del marito cieco. Forse non per caso Rosellina Archinto pubblica gli epistolari tra Ocampo e uomini che l’hanno coinvolta nella felicità e negli abbandoni. Prima del Dialogo (in libreria) ha raccolto le lettere tra Victoria e Drieu la Rochelle, Amarti non è stato un errore; e Non posso tradurre il mio cuore, corrispondenza con Tagore.

Forse l’Archinto respira in Victoria gli entusiasmi che continuano ad animarla: controcorrente nella passione del fabbricare libri diversi dalle copertine che impallidiscono nelle mode. Editrice con attorno amici che la ispirano: Giangiacomo e Inge Feltrinelli, Calvino, Arbasino, Citati, Soldati, Eco, Piero Gelli, quasi un salotto letterario che è poi la cena di ogni domenica nella Milano non da bere. Ventitré posti a tavola, ma senza le formalità di San Isidro, lontana dalla liturgia tè e pasticcini delle domeniche di casa Ocampo.

Borges e Victoria corrono su binari lontani. Lei sposa un compagno di tennis immaginando che il matrimonio possa aprire la gabbia della famiglia bigotta: delusione che le cambia la vita. Luis Bernardo de Estrada pretende la stessa obbedienza assoluta del padre e lei che cerca negli uomini l’intesa «dell’anima e del corpo» si guarda attorno con l’illusione di non ricadere nell’errore. Subito separati in casa dopo il viaggio di nozze a Roma, dove li aveva accolti Julian Martinez, diplomatico argentino cugino del marito. «Bellissimo» ricorda nei diari. Coco Chanel nel carnet delle conquiste. «Quando i suoi occhi fissavano la mia bocca mi sentivo svenire». Incontri carbonari a Parigi e poi la sfida alle chiacchiere: assieme a Mar del Plata dove la Buenos Aires delle buone famiglie respira d’estate.

A Parigi incontra Pierre Drieu la Rochelle, scrittore e saggista così diverso, così affascinante. Impasta fascismo e comunismo nella follia di una destra dal volto umano. Rappresenta lo «spirito e la carne» immaginati da Victoria ma la politica degli anni ’30 sconvolge l’Europa con gli stivali di Hitler: lentamente si allontanano. Organizza per Pierre conferenze in Argentina, viaggi, alberghi e vagabondaggi nella pampa che l’uomo dei sogni definisce con tre parole che fulminano Borges: una vertigine orizzontale. E Borges sospira: «Ha trovato la definizione che gli scrittori argentini cercavano da tempo». Cresciuti nel conservatorismo di famiglie accomodate Borges e lei non ne sopportano il conformismo, ma Pierre non si arrende e Victoria un po’ si riconosce quando lui critica «quel suo inseguire grandi uomini per mescolare l’entusiamo intellettuale con l’esaltazione passionale»: radiografia del loro rapporto. Lettere tenere e lettere carnali. «Che fai laggiù? Scopi, godi, mugoli? Mandami del denaro, fra un po’ piomberò nella miseria più nera». Lei paga, Drieu si vergogna, sparisce, ma l’ultima lettera prima del suicidio (1945, per non essere condannato dai gollisti che hanno vinto la guerra) la imbuca per lei. Che nel frattempo è fra le braccia di amanti sempre giovani.

Incontra a Parigi Roger Caillois, nel ‘38 sull’orlo della guerra. Lei 48 anni, lui 29. Lo trascina nelle conferenze argentine mentre Hitler invade la Polonia. Caillois, storico delle religioni, immagina di far rinascere il sacro nella società moderna, amore irresistibile per la signora del Rio de la Plata. Venti mesi di follie ma, quando De Gaulle sfila a Parigi, sbarca a Buenos Aires la fidanzata di Caillois con un bambino in braccio. Victoria organizza la loro vita e volta pagina.

Negli stessi anni malinconia di Borges per gli amori sfortunati. Intensi e segreti. «Le donne lo maltrattavano soffocate dalla sua devozione» racconta Adolfo Bioy Casares, l’amico giovane del quale si sente maestro ed allievo. Si incontrano a San Isidro negli inviti della domenica. Parlano felici della sintonia. Casares non appartiene al cerchio magico di Victoria, impegnata fra i tavoli con Gropius e Valdo Frank «poeta delle Americhe». Adolfo è solo il ragazzo di Silvina, sorella piccola. E Victoria si inquieta per Georgie appartato «con nessuno». Interrompe i discorsi con parole dure a Borges: «Mi fai vomitare, vieni a intrattenere gli ospiti». Comincia in Bioy Casares l’avversione per lei che lo accompagnerà per sempre.

Nel 1992 accompagnai Bioy Casares dall’ortopedico: una brutta caduta. Lui ordina al taxista di attraversare a passo d’uomo certe strade di Palermo, il quartiere storico della città. Legge ad alta voce le targhe degli psicanalisti appese ai portoni: «Siamo la città più psicanalizzata del mondo». Riporto il discorso su Victoria e lui si infastidisce. «Distribuiva ordini come un generale. Frequentava persone dalle idee che non mi piacevano. Anche Silvina non ne sopporta l’aria da gran dama. Autoritaria, intransigente». Con Silvina e Borges si appartano negli anni di Caillois. Inseguono fantasie lontane dai loro ricami: intrighi polizieschi, antologia di fantascienza. Victoria alza gli occhi al cielo quando impagina in Sur i saggi di Borges: chissà perché si perde nella robaccia. E Callois, che i tre amici considerano cavalier servente, critica la selezione dei loro racconti ma nel segreto dei diari l’ammirazione si arrende: Borges «è il più interessante degli scrittori argentini».

È il 1946 quando «un oscuro colonnello si trasforma in presidente della repubblica». Perón aveva imparato il mestiere delle armi nell’Italia di Mussolini e negli anni della guerra il suo cuore batteva per lui. Victoria aveva incontrato Mussolini in una intervista dalla quale era uscita spaventata «per ciò che sta per succedere in Europa»; Victoria, ricorda la disavventura del Borges che resta sempre suo: l’improvvisa nomina a ispettore generale per la vendita dei polli nel mercato della capitale. Povero Georgie che si informa con l’alto funzionario su come abbia potuto essere designato a quell’incarico quando c’erano tante persone capaci di svolgerlo meglio. «Lei è stato dalla parte degli alleati durante la guerra?». Sì, risponde lo scrittore: «Allora cosa vuole… ».

Victoria non sa la punizione che l’aspetta per l’antifascismo declamato; 26 giorni di prigione nel carcere del Buon Pastore. La sospettano di appartenere ai cospiratori che fanno scoppiare bombe attorno ad Olivos, residenza presidenziale. Perón è subito travolto dalle proteste. Indignazione di Camus, naturalmente Caillois, e i premi Nobel Mauriac e Martin Du Gard. Huxley e Frank organizzano un Comitato di Liberazione. Poi il colonnello scappa, Borges vince premi, conferenze in inglese, libri tradotti in Messico, Parigi e Londra si incantano e il paradiso della direzione della Biblioteca Nacional. Victoria ricorda di averlo sempre ammirato fin dagli anni di Sur: «Straordinario germoglio… Personalità così eccezionale, rappresentava per noi ben più di un successo letterario: era come poter tenere tutti i talenti in una sola mano». E nell’addio alla signora inquieta che se ne va nel 1979 Borges rimpasta i sentimenti del passato con l’affetto e quell’ironia che Victoria non sopportava: «La sua vita è stata un esempio di ospitalità grazie alla sua memoria zeppa di versi in lingue diverse. Non siamo sempre stati d’accordo. Secondo me lei commetteva l’eresia di preferire Baudelaire a Victor Hugo e, secondo lei, io commettevo l’eresia di preferire Victor Hugo a Baudelaire». Si lasciano così.

(26 febbraio 2016)

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