Io canto la differenza

In un discorso sulla dissidenza, argomento oggi più attuale che mai, le canzoni di Violeta Parra offrono molti spunti di riflessione, soprattutto se si pensa all’epoca in cui sono state scritte e alla loro impressionante validità. Difficilmente, i testi di canzoni “impegnate” reggono il confronto con il tempo, per la specificità degli argomenti, che di solito sono vincolati a un determinato periodo o a contesti geografici e politici particolari.
Nel caso di Violeta Parra, l’ispirazione poetica nasce, anche, da una profonda percezione della condizione del “popolo” inteso come categoria sociale universale, vessato dal potere temporale e spirituale e condannato a vivere nell’indigenza e nell’ignoranza, ma al tempo stesso custode di una ricchezza culturale il cui recupero rappresenta una grande occasione di riscatto.
Una condizione che lei conosceva bene, essendo nata e cresciuta in una povera famiglia dei dintorni di Chillán (città del Centro-Sud del Cile), con enormi problemi economici ai quali, insieme ad alcuni dei suoi nove fratelli, cercava fin da piccola di far fronte andando a vendere la sua arte per le strade, cantando strofe popolari e canzoni di moda e apportando così il suo contributo al bilancio familiare. Un’artista che non ha studiato arte, un’autodidatta dalla sensibilità fuori dal comune che, grazie anche alla guida del fratello maggiore, il grande poeta Nicanor Parra, riesce a incanalare in forme musicali e poetiche prima e plastiche poi, quel turbine di sentimenti contrastanti e violenti che alla fine la condurrà alla decisione estrema del suicidio.
I testi di Violeta Parra, che oggi compaiono a pieno diritto nelle antologie della poesia cilena, parlano d’amore, di politica, di religione, di fame e di miseria, della vergognosa situazione in cui si trovano a vivere i veri “proprietari” del territorio cileno, i mapuche. A questo popolo fiero, che aveva resistito vittoriosamente agli attacchi dell’impero incaico ed era riuscito, anche durante la colonia, a mantenere un territorio proprio e che da un secolo subisce le ingerenze e le ruberie dei suoi stessi connazionali, Violeta ha dedicato una serie di canzoni. Così come agli abitanti di Chiloé, l’isola di fronte a Puerto Montt. E le canzoni che parlano di questi popoli, utilizzano le forme musicali tipiche di quelle culture, pazientemente raccolte, assimilate e rielaborate.
Ma Violeta Parra non è solo, e non potrebbe essere altrimenti, una poetessa della dissidenza: nelle varie interviste rilasciate tra la metà degli anni ’50 e quella degli anni ’60, una delle sue preoccupazioni maggiori è il riscatto della “cilenità” intesa come patrimonio culturale di un popolo che sembra aver perso la propria identità. Un patrimonio che conta tra le sue espressioni il “canto a lo humano” e il “canto a lo divino”, quest’ultimo una vera e propria rielaborazione dei racconti biblici, a dimostrazione che la poesia popolare può andare, e va, molto più in profondità di quanto spesso certi giudizi stereotipati lascino intendere. Soprattutto se si pensa, ad esempio, che il “canto a lo divino”, solitamente prerogativa degli uomini, accompagna le veglie funebri degli “angelitos” (bambini morti prima dei cinque anni di età), durante le quali la madre non deve piangere perché altrimenti il figlio non andrà in paradiso. Oppure, pensiamo alla “paya”, l’improvvisazione poetica in strofe di dieci endecasillabi (décimas), nella quale Violeta Parra si cimentò molte volte; non solo: in décimas ci ha lasciato un’autobiografia impressionante per la bellezza, la forza espressiva, la durezza e la dolcezza dei versi che la compongono.
Sarebbe impossibile, in questa sede, analizzare tutti gli aspetti della vita e dell’opera di questa grandissima donna e artista. Per chi volesse approfondire la conoscenza di Violeta Parra, rimando in prima istanza al sito web della Fundación Violeta Parra di Santiago del Cile, nel quale si possono trovare, oltre alla biografia e alla discografia e bibliografia, alcune interviste realizzate negli anni ’50-’60 (http://www.violetaparra.scd.cl/fundacion.htm).
Le canzoni di questo recital, sono state scelte in quanto ciascuna di esse riflette un aspetto della “dissidenza”.
Casamiento de negros, è una rielaborazione di un romance burlesco di Francisco de Quevedo (Boda de negros). È interessante notare come la poesia alta passa a far parte del patrimonio popolare, e come in questo passaggio l’elemento burlesco ai trasforma in un’amara satira della condizione dei due poveri sposi negri. Non solo: cambia il contesto (c’è un evidente riferimento alla flora cilena, il succo di maqui) e cambia il finale della storia, perché nel casamiento di Violeta, la giovane negra muore, mentre nel romance di Quevedo non si va al di là della burla un po’ razzista.
Me gustan los estudiantes, scritta nei primi anni ’60, è uno dei testi che più si adattano a questo periodo di agitazioni nelle Università. Violeta, negli ultimi anni, si lamentava del fatto che gli studenti santiaguini non partecipassero agli spettacoli e alle attività che si tenevano nella sua Carpa de la Reina, e citava proprio questa canzone per evidenziare il dispiacere di non riuscire ad avvicinare i giovani. “Me comenta que lamenta la indiferencia de los jóvenes por estas reuniones de música folclórica, acentuada además porque compuso para ellos una canción con gran cariño y dedicación, especialmente dirigida a los estudiantes” (intervista di Alfonso Molina Leiva, realizzata nella Carpa de La Reina e pubblicada nel “Suplemento Dominical” de “El Mercurio” Ottobre 1966).
Arauco tiene una pena, fa parte di un gruppo di canzoni dedicate alle sofferenze della popolazione mapuche. I nomi che vi si citano sono quelli dei capi mapuche che hanno combattuto contro l’invasione degli spagnoli e che adesso vengono rievocati per combattere i nuovi nemici e sfruttatori, gli stessi cileni.
Un río de sangre (Rodríguez y Recabarren) è un vero e proprio manifesto di denuncia delle ingiustizie e dei crimini perpetrati nel tempo e nello spazio a danno di personaggi “giusti”  dell’umanità. Una canzone che fu censurata in alcuni paesi a causa della sua condanna esplicita dei regimi politici che repressero combattenti e artisti in varie parti del mondo: oltre a Federico García Lorca, a Emiliano Zapata e al congolese Patrice Lumumba, i nomi più noti agli europei, menziona  Manuel Rodríguez (uno dei padri dell’Indipendenza cilena ucciso a tradimento da emissari del governo nel 1818), Luis Emilio Recabarren (padre del movimento operaio cileno rivoluzionario morto suicida nel 1924), l’argentino Ángel Vicente Peñaloza, soprannominato El Chacho, (1796-1863  fu un caudillo e militare federale, uno degli ultimi capi di questa corrente che presero le armi contro il centralismo di Buenos Aires).
Maldigo del alto cielo, fa parte dell’album Últimas composiciones (che contiene anche la famosissima Gracias a la vida, considerata da alcuni come il dritto della medaglia: Gracias/Maldigo) ed è un’invettiva totale contro tutto e tutti, un esempio illuminante di quanta forza espressiva riuscisse a scatenare Violeta Parra, nella gioia come nella disperazione.
I testi delle canzoni, che come ogni buon patrimonio non solo scritto, ma anche fortemente orale, hanno subito nel tempo piccole modifiche da parte dei nuovi “raccoglitori di tradizione”, sono tratti dal Canzoniere “ufficiale” pubblicato dalla Fundación Violeta Parra, Virtud de los elementos- Cancionero de Violeta Parra, Santiago del Cile, 2005.
Li trascrivo, con la relativa traduzione “di servizio”.
Lucia Lorenzini

le canzoni di Violeta Parra